28 de mayo de 2021

70.- Palabras de Antonio Francesco Perozzi sobre "El ambulatorio".

(Antonio Francesco Perozzi / Ver Más)

Imagen de Antonio Francesco Perozzi


 XVI (EL AMBULATORIO)

Ahora estarás en el ambulatorio,
        un centro de salud,
        consulta médica,
es un pasillo inmutable y apático,
        luz decaída, nada nuevo,
querías refugiarte en algún sitio
y entraste en un ambulatorio,
los ambulatorios son eso:
lugares donde hacer una pausa,
parecen transitorios, son lugares
de paso o estaciones de tren,
        una sala de espera
donde mirar el hueco de un tiempo que se esfuma,
y estás en una silla al lado de un anciano,
esperando tu turno imaginario,
        el turno que no tienes,
estás matando el tiempo, no sabes dónde ir
y escuchas lo que hablan:
        necesitaba otra receta,
        me falla la rodilla,
        siguen las mismas náuseas,

el padre que acaricia el pelo de sus hijas,
la mujer que está ausente, despeinada o llorosa,
y el anciano que dice palabras para nadie,
        una frase difusa,
        una queja, otra queja,
sus gafas reparadas, esparadrapo, alambres,
el cristal con fisuras, calcetines caídos,
        palabras hacia el suelo:
con sus labios no saben sino decir palabras,
        sólo tienen su queja,
los miras porque sabes que son como un espejo,
        son como tú,
        y esperan,
        no saben lo que esperan,
        alguna solución, una salida,
        una buena noticia,
        la cita del análisis,
        lo que traiga la sangre,
        una cama más limpia,
        bajar la fiebre un poco,
        que se vayan las náuseas,
        no saber, no sentir,
no necesitan demasiado, se contentan con poco,
si quisieran podrían levantarse y volar,
si pudieran volar, ¡ah, si pudieran volar!,
        tal vez nunca lo harían.




XVI (L’AMBULATORIO)

Ora sarai nell’ambulatorio,
        una ASL,
        uno studio medico,
in un corridoio gelido e apatico,
        luce fioca, nulla di nuovo,
volevi rifugiarti da qualche parte
e sei entrato in un ambulatorio,
gli ambulatori sono così:
luoghi per fare una sosta,
sembrano transitori, sono luoghi
di passaggio o snodi ferroviari,
        una sala d’attesa
dove si sente il vuoto di un tempo che scompare,
e sei seduto vicino a un anziano,
aspettando il tuo turno immaginario,
        il turno che non hai,
stai ammazzando il tempo, non sai dove andare
e ascolti cosa si dice intorno:
        avrei bisogno di una nuova ricetta,
        mi fa male il ginocchio,
        ho ancora la stessa nausea,

un padre che accarezza i capelli delle figlie,
una donna assorta, spettinata o in lacrime,
e un anziano che parla a vuoto,
        una frase sciolta,
        una lamentela, un’altra lamentela,
gli occhiali aggiustati, cerotto e fildiferro,
la lente rigata, le calze abbassate,
        le parole verso il suolo:
aprono la bocca solo per parlare,
        hanno solo da lamentarsi,
li guardi perché sai che sono come uno specchio,
        sono come te,
        e aspettano,
        non sanno cosa aspettano,
        una soluzione, una via d’uscita,
        una buona notizia,
        l’appuntamento per gli esami,
        i risultati,
        un letto più pulito,
        che la febbre scenda,
        che la nausea passi,
        non sapere, non sentire,
non hanno bisogno di molto, si accontentano di poco,
se volessero potrebbero alzarsi e volare,
se potessero volare, ah se potessero farlo,
        forse non volerebbero.



(da Se volessi potresti alzati e volare,
Interno Poesia, 2021, traduzione di Damiano Sinfonico)



   Lo stato patologico, anagraficamente avanzato dell’homo occidentalis necessita di luoghi deputati alla cura, e dunque all’acquisizione di coscienza del proprio decadimento. In quanto tali, questi luoghi sono in verità non-luoghi (asettici) –sono ambulatori, spazi transitori e «luoghi per fare una sosta», «sale d’attesa» di «una buona notizia» oppure della morte.
   Rosales, tradotto qui da Sinfonico, arreda –e la tecnica dell’asindeto è efficace per rendere allo stesso tempo la serie e la labilità– questi spazi con disfunzioni che sono l’allegoria della patologia universale (occidentale). Così si sommano le negazioni (del «sapere», ad esempio), le incapacità delle parole (che precipitano «verso il suolo», oppure servono al lamento, cioè a significante puro, linguaggio d’azione senza significato) e le corruzioni –naturalmente– del corpo («mi fa male il ginocchio, / ho ancora la stessa nausea»).
   La leggerezza del finale impedisce tuttavia a questa poesia della consunzione di degenerare del tutto in poesia dell’apocalisse: la possibilità (il finale si smaga in un doppio o triplo grado di incertezza, tra il «forse» e il periodo ipotetico) di volarsene via annuncia un’apertura; la probabile scelta di non farlo sublima il tragico –che pure è sotterraneamente conservato– in una forma ultima e malinconica di consapevolezza. Forse dell’irrimediabilità della condizione transitoria.

Antonio Francesco Perozzi



12 de mayo de 2021

69.- Palabras de Roberto R. Corsi sobre "Se volessi potresti alzarti e volare".

Reseña de Roberto R. Corsi
[Se volessi potresti alzarti e volare, marzo 2021]


         Di fronte a un’opera quale Se volessi potresti alzarti e volare di José Carlos Rosales, appena uscita per i tipi di Interno Poesia con la cura e traduzione di Damiano Sinfonico e una prefazione di Valerio Nardoni, mi occorre spendere un cave verso il lettore: la mia identificazione emotiva, il cd. narcisismo di lettura di matrice Proustiana, è qui molto elevato. In questo -capovolgendo Achmatova- “poema con antieroe” sento fluire molte delle mie letture, riflessioni, rimuginazioni, accadimenti, farneticazioni, paure. Spero dunque di condurre un’analisi spassionata ma non è garantito.

Va detto intanto che, come leggiamo nelle note finali, la gestazione di questo poemetto suddiviso in venticinque brevi canti ha occupato diversi anni, visto che il poeta di Granada ha fatto circolare i primi estratti già nel 2009. Alcune risorse internautiche ci aiutano a inquadrare ancora meglio la genesi dell’opera. Essa viene concepita alla fine di un ciclo di sei raccolte e forse come inizio di un nuovo epos, contrassegnato da un verso più esteso; così l’Autore in una intervista resa a Christina Linares. Infine, sul versante della proposta italiana, Damiano Sinfonico completa in questo 2021 un percorso di traduzione dell’opera verosimilmente iniziato già nel 2017, a edizione spagnola appena uscita: lo provano gli estratti coevi ospitati su Nazione Indiana. Che, assieme alla recente preview di Nuovi Argomenti, costituisce già un’anteprima testuale abbondante e sufficiente, cui vi rimanderò nuovamente coi link in calce.

Proprio come nella immaginifica e interdisciplinare introduzione di Nardoni, anche io, già al momento di soppesare il titolo, ho avuto il flash di un richiamo intertestuale. Negli anni ‘90, in cima alle classifiche della non-narrativa, c’era un libro di “autoaiuto” scritto da un gesuita, Anthony De Mello. Il titolo era Messaggio per un’aquila che si crede un pollo e, lo deduco dal conto delle ristampe nel colophon, mi è stato regalato o consigliato nel 1996, nei miei ventisei anni (quando evidentemente chi mi stava attorno già capiva che qualcosa in me non andava). Il titolo gioca su una favola per cui un’aquila, cresciuta in gabbia a becchime in mezzo ai polli, sottaciuta la sua capacità di volare, solo alla fine della vita prende coscienza di un suo simile che si libra alto in cielo e della sua natura per sempre repressa. Leggendo il titolo, ho pensato a questa immagine, e a come gli slogan, svuotati, restino più in mente di pagine e pagine di precetti.

Proprio così: magari bastassero una favola, una bella immagine e un manuale a rimetterti sui binari. Rosales ne ha piena coscienza, e la frase che forma il titolo, ribattuta più volte lungo il testo e resa persino universale in coda al canto della sala d’aspetto dell’ambulatorio (canto XVI, dove il non-luogo è perfettamente esposto e rovesciato in luogo agli occhi del non-distratto, ossia del non-adattato), ha una consistenza lunare e quasi sadica.

Il nostro antieroe, nella sua giornata poematica, viene narrato in seconda persona (incalzato, dice bene Nardoni) da un io narrante che da requirente e si muta in inquirente sul finire del libro (non dico troppo per non spoilerare) ma che per gran parte aderisce al personaggio, soprattutto quando questo rimugina –sfogandosi, forse farneticando– contro gli altri, contro il mondo intero che, sotto la patina di una solidarietà di facciata, nasconde solo indifferenza e ricerca dell’eventuale tornaconto.

L’assetto del poema è chiaro fin dalla cesura tra i primi dieci versi dell’opera, che diresti –appunto– quasi presi da un manuale di autoaiuto, e quel “non lo fai” ribattuto con variazioni modali per ben sei volte nella sola pagina iniziale. Nella quale è già dunque evidente che ci muoveremo lungo il più completo disadattamento e incompatibilità sociale.

Dovuti a cosa? Affiorano lacerti di critica all’utilitarismo assoluto (canti II, XIV) alla società dell’homo emptor (canto V, con l’altro “ostinato-ribattuto” dei cioccolatini), all’alienazione lavorativa (XIII, XVIII) e alla ottusità della macchina burocratica (XX); non manca neppure uno sguardo alle ferite ricevute in giovinezza (XIX).

Ma le motrici del libro e del suo protagonista sono due: la noia e la consapevolezza della indifferenza. Anzi una, poiché per alcuni, tra cui Emil Cioran, la noia implica questa consapevolezza. E non trovo, per descrivere il cuore pulsante del libro e il suo impulso primario, frase migliore rispetto a questo squarcio Cioraniano, tratto da Un apolide metafisico: “più o meno bruscamente, a casa propria o in casa d’altri, o davanti a un bellissimo paesaggio, tutto si svuota di contenuto o di senso. Il vuoto è in noi e fuori di noi. L’intero universo è annullato. E niente più ci interessa, niente merita la nostra attenzione. La noia è (…) la rivelazione della futilità universale, è la certezza, spinta fino allo stupore o fino alla chiaroveggenza suprema, che non si può, non si deve fare niente né in questo mondo né in quell’altro, non esiste al mondo niente che possa servirci o soddisfarci” (trad. Tea Turolla).

Da questa esperienza di noia (“annoiato” è presente e ribattuto nel poema) deriva la completa e bilaterale irrilevanza, veramente cosmica indifferenza di tutto a tutto. Non senza ironia: “una volta è uscita la tua foto sul giornale / la vide solo tua sorella” (VI). Si arriva a ipotizzare, al canto VII, che il mondo sia originato “da un guasto” (un clamoroso errore, riprendendo il titolo di un bel libro di Paolo Polvani).

E deriva uno sguardo antropologico sulla persona il cui esaurimento è trattato né più né meno che alla stregua di un mezzo di locomozione: al “mondo pieno di motori” del canto IV fa da contraltare la diffusa contemplazione, lungo il poemetto, di treni e vagoni ormai fermi per sempre, di automobili arrugginite, parcheggiate nella depositeria e da nessuno rivendicate. Evidente metafora del protagonista e dell’uomo in crisi, condotta per tutto il libro.

Gli altri due elementi gnomici da passare in rassegna sono l’impossibilità di estraniarsi e sfuggire a questo meccanismo dentato, rappresentata dal mito della caduta di Icaro, con un probabile riferimento all’illusione di rifugiarsi (ancora proustianamente) nella letteratura come vera vita. E il dato, simile ma con una sfumatura diversa, che la inerzia stessa è tale fino a un certo punto, perché anche il non agire, il farsi trascinare dagli eventi, ne determina il corso. Come gridato dal fondamentale canto XI.

E qui mi fermo con la esegesi, perché ci troviamo sulla soglia dell’azione del poema, che lascio totalmente al gusto della lettura. Infatti, contrariamente alle premesse, alla vicenda viene fatalmente impresso un andamento dinamico e poi una brusca accelerazione sugli ultimi canti. Per giungere a un finale di cui mi limito enigmaticamente a sottolineare simmetria e, anche qui, ironia “posturale”.

Sul piano stilistico Nardoni dice praticamente tutto: estrema libertà che rende il flusso quasi puramente narrativo, con una prevalenza però dei versi imparisillabi nel testo in lingua spagnola. Quindi con una ossatura criptica ma presente. Aggiungerei quanto già implicito nella mia trattazione, ossia il ricorso massiccio alla ripetizione lessicale e concettuale, al ribattuto, all’ostinato, che dà un effetto di rimuginazione continua, di disagio (al canto XXIII il protagonista prende a parlare da solo ma il narratore dice “non ti sente nessuno / io sento ciò che dici”, e in effetti il confine tra pensiero ossessivo e parola non ha corpo sin dall’inizio). E naturalmente tutto un impianto di simmetrie, di contrafforti lungo il poema, che il lettore avrà piacere nel cogliere.

Termino con un dato che potrebbe essere mio personale, dato che ognuno ha il suo strumentario ipertestuale, il suo piedistallo di letture: ho trovato ricchezza di riferimenti e rimandi culturali, ben al di là degli agganci evangelico e Bruegheliano che sono espliciti nel testo. Significativo come, tra i tanti, due “ami” appartengano alla poesia e alla letteratura del nostro paese: l’incipit del canto X, che echeggia il caproniano Biglietto lasciato…; e, al canto XX, quelle Pirandelliane “trecentododici macchine in cerca d’autore”.

Non so se questa sarà la prima puntata di un ciclo, ma il risultato è già ex se notevole.

[José Carlos ROSALES, Se volessi potresti alzarti e volare, trad. cur. Damiano Sinfonico, pref. Valerio Nardoni, testo spagnolo a fronte, Latiano: Interno Poesia, 2021, pp. 133]