11 de junio de 2023

74.- Tomás Galindo lee "El ambulatorio", un poema de "Si quisieras podrías levantarte y volar".



     El otro día, paseando virtualmente por el mundo gaseoso de la web, me tropecé con las páginas o blogs de Tomas Galindo, con su canal de YouTube llamado Poesía Recitada, y he visto con agradable sorpresa que tuvo hace tiempo la gentileza de subir la grabación de un poema mío, una poderosa voz y una magnífica lectura... Le doy las gracias a Tomás Galindo, lector al que no conozco, pero al que le agradezco haberse detenido en una de las páginas de "Si quisieras podrías levantarte y volar". En fin, está bien comprobar de vez en cuando que la poesía fluye de la mano de aquellos que no buscan nada ajeno a la propia poesía, sólo verdad o belleza, la emoción de lo que se va, la alegría de lo que se aproxima...



28 de mayo de 2021

70.- Palabras de Antonio Francesco Perozzi sobre "El ambulatorio".

(Antonio Francesco Perozzi / Ver Más)

Imagen de Antonio Francesco Perozzi


 XVI (EL AMBULATORIO)

Ahora estarás en el ambulatorio,
        un centro de salud,
        consulta médica,
es un pasillo inmutable y apático,
        luz decaída, nada nuevo,
querías refugiarte en algún sitio
y entraste en un ambulatorio,
los ambulatorios son eso:
lugares donde hacer una pausa,
parecen transitorios, son lugares
de paso o estaciones de tren,
        una sala de espera
donde mirar el hueco de un tiempo que se esfuma,
y estás en una silla al lado de un anciano,
esperando tu turno imaginario,
        el turno que no tienes,
estás matando el tiempo, no sabes dónde ir
y escuchas lo que hablan:
        necesitaba otra receta,
        me falla la rodilla,
        siguen las mismas náuseas,

el padre que acaricia el pelo de sus hijas,
la mujer que está ausente, despeinada o llorosa,
y el anciano que dice palabras para nadie,
        una frase difusa,
        una queja, otra queja,
sus gafas reparadas, esparadrapo, alambres,
el cristal con fisuras, calcetines caídos,
        palabras hacia el suelo:
con sus labios no saben sino decir palabras,
        sólo tienen su queja,
los miras porque sabes que son como un espejo,
        son como tú,
        y esperan,
        no saben lo que esperan,
        alguna solución, una salida,
        una buena noticia,
        la cita del análisis,
        lo que traiga la sangre,
        una cama más limpia,
        bajar la fiebre un poco,
        que se vayan las náuseas,
        no saber, no sentir,
no necesitan demasiado, se contentan con poco,
si quisieran podrían levantarse y volar,
si pudieran volar, ¡ah, si pudieran volar!,
        tal vez nunca lo harían.




XVI (L’AMBULATORIO)

Ora sarai nell’ambulatorio,
        una ASL,
        uno studio medico,
in un corridoio gelido e apatico,
        luce fioca, nulla di nuovo,
volevi rifugiarti da qualche parte
e sei entrato in un ambulatorio,
gli ambulatori sono così:
luoghi per fare una sosta,
sembrano transitori, sono luoghi
di passaggio o snodi ferroviari,
        una sala d’attesa
dove si sente il vuoto di un tempo che scompare,
e sei seduto vicino a un anziano,
aspettando il tuo turno immaginario,
        il turno che non hai,
stai ammazzando il tempo, non sai dove andare
e ascolti cosa si dice intorno:
        avrei bisogno di una nuova ricetta,
        mi fa male il ginocchio,
        ho ancora la stessa nausea,

un padre che accarezza i capelli delle figlie,
una donna assorta, spettinata o in lacrime,
e un anziano che parla a vuoto,
        una frase sciolta,
        una lamentela, un’altra lamentela,
gli occhiali aggiustati, cerotto e fildiferro,
la lente rigata, le calze abbassate,
        le parole verso il suolo:
aprono la bocca solo per parlare,
        hanno solo da lamentarsi,
li guardi perché sai che sono come uno specchio,
        sono come te,
        e aspettano,
        non sanno cosa aspettano,
        una soluzione, una via d’uscita,
        una buona notizia,
        l’appuntamento per gli esami,
        i risultati,
        un letto più pulito,
        che la febbre scenda,
        che la nausea passi,
        non sapere, non sentire,
non hanno bisogno di molto, si accontentano di poco,
se volessero potrebbero alzarsi e volare,
se potessero volare, ah se potessero farlo,
        forse non volerebbero.



(da Se volessi potresti alzati e volare,
Interno Poesia, 2021, traduzione di Damiano Sinfonico)



   Lo stato patologico, anagraficamente avanzato dell’homo occidentalis necessita di luoghi deputati alla cura, e dunque all’acquisizione di coscienza del proprio decadimento. In quanto tali, questi luoghi sono in verità non-luoghi (asettici) –sono ambulatori, spazi transitori e «luoghi per fare una sosta», «sale d’attesa» di «una buona notizia» oppure della morte.
   Rosales, tradotto qui da Sinfonico, arreda –e la tecnica dell’asindeto è efficace per rendere allo stesso tempo la serie e la labilità– questi spazi con disfunzioni che sono l’allegoria della patologia universale (occidentale). Così si sommano le negazioni (del «sapere», ad esempio), le incapacità delle parole (che precipitano «verso il suolo», oppure servono al lamento, cioè a significante puro, linguaggio d’azione senza significato) e le corruzioni –naturalmente– del corpo («mi fa male il ginocchio, / ho ancora la stessa nausea»).
   La leggerezza del finale impedisce tuttavia a questa poesia della consunzione di degenerare del tutto in poesia dell’apocalisse: la possibilità (il finale si smaga in un doppio o triplo grado di incertezza, tra il «forse» e il periodo ipotetico) di volarsene via annuncia un’apertura; la probabile scelta di non farlo sublima il tragico –che pure è sotterraneamente conservato– in una forma ultima e malinconica di consapevolezza. Forse dell’irrimediabilità della condizione transitoria.

Antonio Francesco Perozzi



12 de mayo de 2021

69.- Palabras de Roberto R. Corsi sobre "Se volessi potresti alzarti e volare".

Reseña de Roberto R. Corsi
[Se volessi potresti alzarti e volare, marzo 2021]


         Di fronte a un’opera quale Se volessi potresti alzarti e volare di José Carlos Rosales, appena uscita per i tipi di Interno Poesia con la cura e traduzione di Damiano Sinfonico e una prefazione di Valerio Nardoni, mi occorre spendere un cave verso il lettore: la mia identificazione emotiva, il cd. narcisismo di lettura di matrice Proustiana, è qui molto elevato. In questo -capovolgendo Achmatova- “poema con antieroe” sento fluire molte delle mie letture, riflessioni, rimuginazioni, accadimenti, farneticazioni, paure. Spero dunque di condurre un’analisi spassionata ma non è garantito.

Va detto intanto che, come leggiamo nelle note finali, la gestazione di questo poemetto suddiviso in venticinque brevi canti ha occupato diversi anni, visto che il poeta di Granada ha fatto circolare i primi estratti già nel 2009. Alcune risorse internautiche ci aiutano a inquadrare ancora meglio la genesi dell’opera. Essa viene concepita alla fine di un ciclo di sei raccolte e forse come inizio di un nuovo epos, contrassegnato da un verso più esteso; così l’Autore in una intervista resa a Christina Linares. Infine, sul versante della proposta italiana, Damiano Sinfonico completa in questo 2021 un percorso di traduzione dell’opera verosimilmente iniziato già nel 2017, a edizione spagnola appena uscita: lo provano gli estratti coevi ospitati su Nazione Indiana. Che, assieme alla recente preview di Nuovi Argomenti, costituisce già un’anteprima testuale abbondante e sufficiente, cui vi rimanderò nuovamente coi link in calce.

Proprio come nella immaginifica e interdisciplinare introduzione di Nardoni, anche io, già al momento di soppesare il titolo, ho avuto il flash di un richiamo intertestuale. Negli anni ‘90, in cima alle classifiche della non-narrativa, c’era un libro di “autoaiuto” scritto da un gesuita, Anthony De Mello. Il titolo era Messaggio per un’aquila che si crede un pollo e, lo deduco dal conto delle ristampe nel colophon, mi è stato regalato o consigliato nel 1996, nei miei ventisei anni (quando evidentemente chi mi stava attorno già capiva che qualcosa in me non andava). Il titolo gioca su una favola per cui un’aquila, cresciuta in gabbia a becchime in mezzo ai polli, sottaciuta la sua capacità di volare, solo alla fine della vita prende coscienza di un suo simile che si libra alto in cielo e della sua natura per sempre repressa. Leggendo il titolo, ho pensato a questa immagine, e a come gli slogan, svuotati, restino più in mente di pagine e pagine di precetti.

Proprio così: magari bastassero una favola, una bella immagine e un manuale a rimetterti sui binari. Rosales ne ha piena coscienza, e la frase che forma il titolo, ribattuta più volte lungo il testo e resa persino universale in coda al canto della sala d’aspetto dell’ambulatorio (canto XVI, dove il non-luogo è perfettamente esposto e rovesciato in luogo agli occhi del non-distratto, ossia del non-adattato), ha una consistenza lunare e quasi sadica.

Il nostro antieroe, nella sua giornata poematica, viene narrato in seconda persona (incalzato, dice bene Nardoni) da un io narrante che da requirente e si muta in inquirente sul finire del libro (non dico troppo per non spoilerare) ma che per gran parte aderisce al personaggio, soprattutto quando questo rimugina –sfogandosi, forse farneticando– contro gli altri, contro il mondo intero che, sotto la patina di una solidarietà di facciata, nasconde solo indifferenza e ricerca dell’eventuale tornaconto.

L’assetto del poema è chiaro fin dalla cesura tra i primi dieci versi dell’opera, che diresti –appunto– quasi presi da un manuale di autoaiuto, e quel “non lo fai” ribattuto con variazioni modali per ben sei volte nella sola pagina iniziale. Nella quale è già dunque evidente che ci muoveremo lungo il più completo disadattamento e incompatibilità sociale.

Dovuti a cosa? Affiorano lacerti di critica all’utilitarismo assoluto (canti II, XIV) alla società dell’homo emptor (canto V, con l’altro “ostinato-ribattuto” dei cioccolatini), all’alienazione lavorativa (XIII, XVIII) e alla ottusità della macchina burocratica (XX); non manca neppure uno sguardo alle ferite ricevute in giovinezza (XIX).

Ma le motrici del libro e del suo protagonista sono due: la noia e la consapevolezza della indifferenza. Anzi una, poiché per alcuni, tra cui Emil Cioran, la noia implica questa consapevolezza. E non trovo, per descrivere il cuore pulsante del libro e il suo impulso primario, frase migliore rispetto a questo squarcio Cioraniano, tratto da Un apolide metafisico: “più o meno bruscamente, a casa propria o in casa d’altri, o davanti a un bellissimo paesaggio, tutto si svuota di contenuto o di senso. Il vuoto è in noi e fuori di noi. L’intero universo è annullato. E niente più ci interessa, niente merita la nostra attenzione. La noia è (…) la rivelazione della futilità universale, è la certezza, spinta fino allo stupore o fino alla chiaroveggenza suprema, che non si può, non si deve fare niente né in questo mondo né in quell’altro, non esiste al mondo niente che possa servirci o soddisfarci” (trad. Tea Turolla).

Da questa esperienza di noia (“annoiato” è presente e ribattuto nel poema) deriva la completa e bilaterale irrilevanza, veramente cosmica indifferenza di tutto a tutto. Non senza ironia: “una volta è uscita la tua foto sul giornale / la vide solo tua sorella” (VI). Si arriva a ipotizzare, al canto VII, che il mondo sia originato “da un guasto” (un clamoroso errore, riprendendo il titolo di un bel libro di Paolo Polvani).

E deriva uno sguardo antropologico sulla persona il cui esaurimento è trattato né più né meno che alla stregua di un mezzo di locomozione: al “mondo pieno di motori” del canto IV fa da contraltare la diffusa contemplazione, lungo il poemetto, di treni e vagoni ormai fermi per sempre, di automobili arrugginite, parcheggiate nella depositeria e da nessuno rivendicate. Evidente metafora del protagonista e dell’uomo in crisi, condotta per tutto il libro.

Gli altri due elementi gnomici da passare in rassegna sono l’impossibilità di estraniarsi e sfuggire a questo meccanismo dentato, rappresentata dal mito della caduta di Icaro, con un probabile riferimento all’illusione di rifugiarsi (ancora proustianamente) nella letteratura come vera vita. E il dato, simile ma con una sfumatura diversa, che la inerzia stessa è tale fino a un certo punto, perché anche il non agire, il farsi trascinare dagli eventi, ne determina il corso. Come gridato dal fondamentale canto XI.

E qui mi fermo con la esegesi, perché ci troviamo sulla soglia dell’azione del poema, che lascio totalmente al gusto della lettura. Infatti, contrariamente alle premesse, alla vicenda viene fatalmente impresso un andamento dinamico e poi una brusca accelerazione sugli ultimi canti. Per giungere a un finale di cui mi limito enigmaticamente a sottolineare simmetria e, anche qui, ironia “posturale”.

Sul piano stilistico Nardoni dice praticamente tutto: estrema libertà che rende il flusso quasi puramente narrativo, con una prevalenza però dei versi imparisillabi nel testo in lingua spagnola. Quindi con una ossatura criptica ma presente. Aggiungerei quanto già implicito nella mia trattazione, ossia il ricorso massiccio alla ripetizione lessicale e concettuale, al ribattuto, all’ostinato, che dà un effetto di rimuginazione continua, di disagio (al canto XXIII il protagonista prende a parlare da solo ma il narratore dice “non ti sente nessuno / io sento ciò che dici”, e in effetti il confine tra pensiero ossessivo e parola non ha corpo sin dall’inizio). E naturalmente tutto un impianto di simmetrie, di contrafforti lungo il poema, che il lettore avrà piacere nel cogliere.

Termino con un dato che potrebbe essere mio personale, dato che ognuno ha il suo strumentario ipertestuale, il suo piedistallo di letture: ho trovato ricchezza di riferimenti e rimandi culturali, ben al di là degli agganci evangelico e Bruegheliano che sono espliciti nel testo. Significativo come, tra i tanti, due “ami” appartengano alla poesia e alla letteratura del nostro paese: l’incipit del canto X, che echeggia il caproniano Biglietto lasciato…; e, al canto XX, quelle Pirandelliane “trecentododici macchine in cerca d’autore”.

Non so se questa sarà la prima puntata di un ciclo, ma il risultato è già ex se notevole.

[José Carlos ROSALES, Se volessi potresti alzarti e volare, trad. cur. Damiano Sinfonico, pref. Valerio Nardoni, testo spagnolo a fronte, Latiano: Interno Poesia, 2021, pp. 133]



8 de febrero de 2021

68.- Se volessi potresti alzarti e volare.

Todo mi agradecimiento al profesor y poeta italiano Damiano Sinfónico por su riguroso y magnífico trabajo de traducción, por sus esfuerzos y pesquisas para que este libro (Si quisieras podrías levantarte y volar) pudiera finalmente publicarse en Italia, en una edición bilingüe, en la editorial Interno Poesia. Y muchas gracias también al profesor de la Universidad de Módena, Valerio Nardoni, por su prólogo y a todos los que han hecho posible esta edición. El resultado es espléndido. Por cierto, la foto de la cubierta es de la grande y amable Antonia Ortega Urbano, siempre ahí. Mañana, 9 de febrero de 2021, Se volessi potresti alzarti e volare estará disponible en las librerías italianas.










 

30 de diciembre de 2019

67.- Será transparente como el agua o el aire.

[...]
el viento habrá podido arrastrarlo, llevárselo,
          seguro que se habrá disgregado
y será transparente como el agua o el aire,
estará ahí por, volando por el cielo,
          ¿qué más da dónde esté?

[...]



Imágenes de José Carlos Rosales (Granada, España, marzo y julio de 2019)

[Salvo error o excepción, las entradas de este blog han llegado a su fin]



15 de noviembre de 2019

66.- Reseña de Alfonso Sánchez (11).

¿Un hombre raro?, Alfonso Sánchez
(El Maquinista de la Generación, número doble, 26-27, Málaga, abril de 2019)





[Las entradas de este blog están empezando a llegar a su fin]


23 de octubre de 2019

65.- Las alas que no tienes.


Un trabajo de Anaïs López / The Migrant / Kutxa Kultur

[...]
porque no hay ningún sitio
     al que quieras volver,
un lugar perdido o ignorado,
el sitio donde puedas entrar y diluirte,
tumbarte con las alas plegadas,
esas alas gigantes que te impiden vivir,
     alas imaginarias o fingidas,
     las alas que no tienes,
     invisibles o blancas,
pero estás muy cansado y no lo haces,
     no lo harías, no lo quieres hacer,
si quisieras podrías levantarte y volar,
y alejarte del mundo, y morirte muy lejos
[...]








[Con la colaboración involuntaria de Anaïs López][Las entradas de este blog están empezando a llegar a su fin]



28 de septiembre de 2019

64.- Volando por el cielo.

[...]
estará en algún sitio donde nadie lo busque,
          ya lo dije: parecía desnutrido,
          y pesaba tan poco
que el viento habrá podido arrastrarlo, llevárselo,
          seguro que se habrá disgregado
y será transparente como el agua o el aire,
estará por ahí, volando por el cielo,
         ¿qué más da dónde esté?
[...]


Imagen de José Carlos Rosales (Roma, Italia, septiembre de 2017)


8 de agosto de 2019

63.- Alejarte de aquí.

[...]
si quisieras podrías levantarte y volar,
y alejarte del mundo, y morirte muy lejos,
si te quedas aquí
          seguirás como hasta ahora,
tan cansado y tan vivo,
          tan ligero y distante,
          tan pesado,
          tan solo.


Imagen de Georges Remi (Hergé) / Ver más


4 de junio de 2019

62.- Una secuencia de "Si quisieras podrías levantarte y volar" ha sido incluida en el nº 267 de "Litoral".



    En el nuevo número de la revista Litoral (nº 267, Málaga, 2019; dedicada a "El automóvil. Poesía y arte sobre ruedas") se ha publicado la secuencia IV de Si quisieras podrías levantarte y volar.








26 de marzo de 2019

61.- ¿Si quisieras podrías escribir una carta?




[...]
caminas por el monte y asciendes sin esfuerzo,
en busca de un buzón, de vereda en vereda,
no sé por qué no dejan buzones en el monte,
un buzón que pudiera recibir esa carta
        que nunca escribirás,
        una carta, un buzón,
una carta difícil si no hay destinatario,
        por eso no la envías,
        por eso no la escribes,
        y por eso das vueltas
        y vueltas
        y más vueltas:
si quisieras podrías levantarte y volar.


(Págs. 61-62)


27 de enero de 2019

59.- Volando por el cielo.

[...] 
que el viento habrá podido arrastrarlo, llevárselo,
             seguro que se habrá disgregado
y será transparente como el agua o el aire,
estará por ahí, volando por el cielo,
             ¿qué más da dónde esté?
[...]

"Drachensteigen" (Volando cometas),



7 de diciembre de 2018

57.- Reseña de José Pallarés (10).

Las alas de un buzo, José Pallarés
(TEMBLOR. Asidero poético, noviembre 2018)

      La aparición de Un paisaje, la magnífica antología de José Carlos Rosales editada por Renacimiento en 2013, supone a mi entender un punto esencial a la hora de contemplar la producción poética de su autor. En ella aparecen muestras de todos sus libros anteriores (El buzo incorregible, El precio de los días, La nieve blanca, El horizonte, El desierto, la arena y Poemas a Milena) y un anticipo de los dos siguientes: Y el aire de los mapas (con el que el poeta cerrará el ciclo iniciado con El buzo incorregible y formado por todos los libros publicados anteriormente, a excepción de Poemas a Milena) y Si quisieras podrías levantarte y volar, el libro que nos ocupa y que implica de hecho la adopción de un nuevo modo expresivo (el poema largo), sin renunciar a las señas presentes en los libros anteriores: el tono reflexivo, el distanciamiento irónico, la contención emocional, el léxico preciso, la claridad, la elaboración concienzuda del poema, la sólida construcción del libro como tal…
     El libro está formado por veinticinco poemas que son, en realidad, un solo poema. Si redujéramos el libro a su condición de historia (una suerte de road movie), podríamos decir que consta de veinticinco capítulos. Nada en este libro es fruto del azar, desde su sólida estructuración, hasta el propio título, la elección de las citas iniciales, los guiños intertextuales o la elección del modelo del coche que conduce el protagonista.
      Empecemos por el título: Si quisieras podrías levantarte y volar. Es un título sugerente y algo extraño. Normalmente (no siempre) utilizamos para los títulos frases nominales: Campos de Castilla, Arias tristes, Descrédito del héroe, Un paisaje… Aquí, sin embargo, nos encontramos con una oración compleja que, en un primer análisis, incluye una subordinación condicional («Si quisieras»). En este tipo de construcciones la subordinada no es, desde el punto de vista del significado, menos importante que la principal, ya que esta, sin aquella, queda vacía, negada: «Podrías levantarte y volar», nos dice el poeta, pero siempre que quisieras. Y eso no está tan claro, porque la voluntad puede que no exista o que esté anulada por un cansancio extremo. De hecho, en el poema de Luis Cernuda del que está tomada la primera cita que encabeza el libro («Estar cansado tiene plumas»), esas plumas no sirven para volar, son «plumas que desde luego nunca vuelan, / mas balbucean igual que loro». Es decir, no sólo no nos sirven para volar, sino que nos sumen en un estado de incomunicación, de aislamiento, de mero balbuceo.


       El primer poema “Las alas” se abre así: «Estarás tan cansado que te sientes ligero, / tan ligero / que ahora mismo podrías levantarte y volar». El empleo de la segunda persona, tan habitual en la poesía de JCR, domina también en este libro; pero ahora quiero fijarme sólo en el empleo del tiempo: “estarás” es un futuro, se refiere necesariamente a algo que no ha pasado, que forma parte de la suposición, del deseo…; sin embargo, se resuelve con una clara actualización del presente, el tiempo de lo real: “Estarás tan cansado que te sientes ligero”. En este primer verso el lector queda ya atrapado: la segunda persona lo interpela, identificándolo con esa voz del personaje poético, con ese desdoblamiento del yo poético y, al mismo tiempo, lo mete en ese mundo real, en la propia experiencia poética de la que es imposible salir indemne. Siente así el lector que se queda en su casa, en su vida, en su rutina diaria, en su soledad…, porque no hay ninguna Ítaca a la que volver; por eso, aunque si quisiéramos podríamos levantarnos y volar, seguimos aquí con nuestro cansancio y nuestra soledad, aislados, sin atender ni “el timbre de la puerta”, ni “el teléfono” (los títulos de los siguientes poemas), siguiendo donde siempre: «…seguirás donde siempre, / nada puede alcanzarte, / nada puede ocurrir y el teléfono suena: / que suene como suena / la lluvia cuando llueve».
      A partir del siguiente poema nos encontramos sin embargo en un lugar diferente: la autopista, un lugar indefinido, camino a ningún sitio. Mi impresión es que a partir de este momento empieza la ficción, o, si queremos, una segunda ficción: el yo poético sigue en su casa, pero imagina, acaso sueña, que ha salido, que está en la autopista, sin ir a ningún sitio, aislado dentro de su coche, como el buzo o el astronauta dentro de su escafandra: «todo está en movimiento menos tú, / que ahora corres por la autopista / en dirección a cualquier parte». Una imagen ocupa este poema: los motores. Vivimos rodeados de motores que giran sin cesar mientras nosotros permanecemos quietos, aislados en un mundo en el que «solo existen motores, / es más fácil encontrar un motor / que encontrar un amigo».
    Dos gasolineras sirven de marco para los poemas V (“La chocolatina”) y VI (“La gasolinera”). Se trata de un espacio impersonal en el que el personaje se detiene para hacerse con una chocolatina o un periódico. Como en otros poemas, el lector tiende a confundir las voces, pues se mezclan las reflexiones del protagonista que espera en la cola con las del que lo contempla en la distancia. Quiero apuntar la presencia, por lo demás frecuente en todo el libro, de guiños al lector mediante referencias a poemas con los que se le supone familiarizado. Así, nuestro personaje va de su corazón a sus asuntos mientras, en la cola, espera la llegada del encargado que resuelva el problema surgido en la caja, pues «siempre hay un encargado, / en todos sitios hay un responsable, / un responsable oculto o escondido, / un responsable acecha…». La aparición de estos guiños, exentos de cualquier tono pedante, es frecuente en todo el libro y podría ser objeto de un análisis más detallado que ahora no procede, aunque señalaremos algún otro caso.
       Echado sobre el pretil de “un puente que no es puente” (poema VII), contemplamos con el protagonista el vacío, el sinsentido, los vagones y los trenes abandonados, inmóviles, sin destino… Esos trenes son el centro del siguiente poema (“Los trenes”) en el que el juego de voces adquiere una complejidad explícita. Mientras nuestro personaje contempla los trenes abandonados («te pareces a las cosas que miras / y las cosas que miras se vuelven como tú»), aparece la voz en primera persona de quien lo contempla a él («te miro a ti, te miro / y tú miras los trenes»). Observemos que las miradas vienen desde lo alto, desde la distancia que abre camino a que el personaje desdoblado adquiera una mayor entidad o independencia: «desde arriba las cosas se ven de otra manera […] / yo te miro mirarlas sin saber lo que piensas…». Es el momento ahora de hacer referencia a la segunda cita que abre el libro: «Pues las cosas verá desde lo alto, / nunca terná de qué pueda alterarse». Pertenece a la epístola de Boscán como “Respuesta a don Diego de Mendoça”, y en ella Boscán defiende cómo esta distancia es necesaria para alcanzar la virtud: «Quien sabe y quiere a la virtud llegarse, / pues las cosas verá desde lo alto, / nunca terná de qué pueda alterarse». Es la distancia del que mira desde lo alto del puente los vagones inservibles y del que lo contempla mientras mira.
      Entretanto, el coche ha quedado mal aparcado, nuestro protagonista niega ante la policía que el coche sea suyo, mientras el viento engañoso le sugiere que hay algún sitio que lo espera (poema IX, “La policía local”). “La grúa” (poema XI) se ha llevado el coche, ante la desidia de su dueño: «…muchas veces has visto / alejarse tu mundo, / estás acostumbrado a que todo se vaya», a que se lleve «todo lo que fue tuyo y resultó ser nada». La presencia del poema de Blas de Otero es significativa. De hecho aparecerá más adelante, en los poemas XIV (“Las cartas”) y XVII (“La caída”). Sin embargo, la fe en la palabra parece haber desaparecido, pues las palabras que el personaje busca al rellenar el crucigrama son tan sólo «las palabras impuestas, / palabras sugeridas», palabras que quedarán en el periódico «medio escritas, / tachadas». Desolación se llama la sensación que nos invade. En medio han quedado dos poemas muy significativos: “El sótano” (poema XII) y “Las escaleras” (poema XIII). El primero es un verdadero descenso a los infiernos, donde «todo se ha vuelto mugre, y tú también podrías / convertirte en basura, te volverás basura / si llevas la contraria…»; en el segundo, la constatación del fracaso (llámese Babel, llámese Ícaro, tal como se explicitará en el poema XVII, “La caída”) del que intenta subir permite además la constatación de que toda subida se basa en la humillación de alguien, pues «sólo puedes subir si te manchas las manos, / o si pagas el precio, aduana o peaje».
          En los poemas XV y XVI (“Las palabras” y “El ambulatorio”) son el tiempo vacío y la desolación los elementos dominantes. El ya citado poema “La caída”, incorpora nuevamente el recuerdo del poema de Blas de Otero (el tiempo perdido es un «anillo que se arroja al agua») y de otros poemas menos explícitos textualmente pero no sentimentalmente: los «papeles arrugados», el «panorama sin aire», nos conducen al “Nocturno” de Alberti en el que las palabras están «heridas de muerte». Y nos conducen también a un tiempo en el que estos poemas, el de Otero y el del Alberti, formaron parte de la banda sonora de un sueño esperanzado. Hoy, sin embargo, como en el cuadro de Brueghel, la muerte de Ícaro es un “inesperado chapoteo” en el que perdemos todos, pues «con él se hundió algo / que también era nuestro: / algo que era de todos». Quizá esté en estos versos la clave de todo el libro.
        La contemplación de un escaparate (poema XVIII) en el que se saldan los muebles de oficina por cambio de negocio nos lleva a pensar que todo es ya oficina: si “un responsable acecha” (poema V), también las oficinas, como las cárceles del poema de Miguel Hernández, «se arrastran / por la humedad del mundo», con el único propósito de anular al hombre, tal como acontece en los relatos de Kafka. Nuestra única defensa es no proclamar nunca nuestra soledad, nuestra indefensión: «…y te callas, te callas, / y no le dices nunca a nadie que estás solo» (poema XIX, “Los consejos”). Contra ese mundo de burocracia y oficina chocará nuestro protagonista cuando intenta sin éxito recuperar su coche (poema XX, “El depósito de la grúa”), de modo que acabará robándolo y emprendiendo “la huida” (poema XXI), convirtiéndose así en un curioso delincuente, «el hombre que robó su propio coche» (poema XXII, “La emisora local”) y que acaba dejándolo abandonado en “la cuneta” (poema XXIII). Estamos al final de esta historia. El coche queda abandonado y nuestro personaje se esfuma. «Detenerte pensé, pasaste huyendo» era el verso de Luis Carrillo y Sotomayor que JCR utilizaba como tercera cita al comienzo de su libro y que, ahora, se integra en el poema: «El tiempo se acabó […] / detenerte pensé, / pasaste huyendo».
      “Días más tarde” (poema XXIV) aparece el Simca Aronde abandonado. El propio JCR ha insistido en varias ocasiones en la importancia de esta elección: se trata de un modelo que en los años sesenta fue símbolo de la modernidad, una modernidad que ahora aparece truncada, rota; por otra parte, la palabra francesa “aronde” significa “alondra” o “golondrina” y nos vincula así con el ansia de volar. Reaparece ahora la voz en primera persona, acomodada en el mismo bar en el que transcurrieron los poemas XI-XIV. Fue el dueño de esa voz quien lo imaginó todo: «Imaginé su casa, su fuga, su desidia / y su coche perdido y encontrado en el monte, / […] robó su coche, se evaporó del mundo, / y así lo vi, así lo imaginé: / ¿cuál es la diferencia?».
       Se cierra el libro con el poema XXV, en el que “habla el empleado de una gasolinera”, un testimonio necesario aun para esa voz que todo lo ha imaginado, pero a la que, efectivamente, parece que se le ha escapado el personaje (antes ha habido un guiño a Pirandello). Dice así el empleado: «Estará en algún sitio donde nadie lo busque, […] seguro que se habrá disgregado / y será transparente como el agua o el aire, / estará por ahí, volando por el cielo, / ¿qué más da dónde esté?».
       «¡Oh volador dichoso que volaste / por la región del aire a la del fuego, / y en esfera de luz, quedando ciego, / alas, vida y volar sacrificaste». Los versos tercero y cuarto de este cuarteto del Conde de Villamediana son la cuarta y última cita con la que JCR ha encabezado su libro. Queremos pensar que la búsqueda de la luz, aunque se pague con el fracaso, en algún momento merecerá la pena para “el volador dichoso” que decida “levantarse y volar”.
       Compruebo ahora que la primera impresión que me produjo la lectura de este último libro de José Carlos Rosales se ha ido reafirmando con las siguientes lecturas: se trata de un libro que obliga a una lectura pausada y atenta, con margen para apartar los ojos de la página leída y dejar volar el pensamiento o la imaginación; se trata de un libro muy trabajado e inteligente; se trata de un libro emocionante y conmovedor, que nos interroga y nos hace interrogarnos sobre la radical soledad con la que el ser humano se enfrenta con su tiempo. No dejen de leerlo.




2 de diciembre de 2018

56.- Volar por encima de todo, sea lo que sea.

"Volar, sí, ¡volar! como vuela el mundo.
Pero, si me caigo, no caer encima de los otros"
[Juan Ramón Jiménez, Ideolojía (1897‑1957), Barcelona, 1990].









Imágenes de Friedrich Seidenstücker (Berlín, 1882-1966) / Ver más I / Ver más II